SCOMPARSA E RITORNO DEL LUPO
Ampiamente diffuso nell’intera penisola, il lupo si è estinto nella regione alpina e in tutto il nord Italia a partire dal 1897, anno a cui risalgono gli ultimi esemplari abbattuti sulle Alpi Orobie.
Nei primi anni del ‘900 la specie si è mantenuta nell’Appennino centro-meridionale tra la Romagna e l’Aspromonte, mentre a partire dagli anni ’40 risultava estinta in Sicilia. Nel ventennio successivo il secondo conflitto mondiale la situazione del lupo si è fatta ancora più critica con la scomparsa sull’Appennino tosco-emiliano e la frammentazione in nuclei distinti sull’Appennino meridionale. A partire dal 1971 sulla specie, fino a quel momento cacciabile con ogni mezzo, è stato posto il divieto di caccia che è divenuto definitivo nel 1976.
Si è assistito così alla ripresa della popolazione con una graduale espansione lungo la catena appenninica. Dalla fine degli anni ’80 il lupo ha iniziato un processo di ricolonizzazione che da principio ha riguardato l’Appennino settentrionale e successivamente l’arco alpino, iniziando dalle Alpi Marittime. Nel volgere di pochi anni la specie è arrivata fino alla provincia di Torino (Val di Susa) e, da qui, individui in dispersione hanno iniziato a colonizzare alcune aree delle Alpi Lepontine.
La ricomparsa del lupo in Lombardia è databile al 1986, quando alcuni individui in dispersione lungo la catena appenninica si sono stabiliti, riproducendosi, nella zona di confine tra Lombardia, Emilia, Piemonte e Liguria. Nella zona alpina, invece, la presenza del lupo è stata segnalata solo di recente; in particolare la prima valle a essere interessata dalla ricolonizzazione è stata la Val Seriana, dove già nel 2000 un sopralluogo mirato ad accertare la presenza del predatore ha permesso di ritrovare segni di presenza certi.
Nel 2001 è stata segnalata la presenza del lupo in Val Chiavenna, probabilmente individui giovani in dispersione dalla Svizzera (dove è considerato presente dal 1995) e, successivamente, nel 2003, è stata accertata la presenza di 2 lupi diversi nella valle di Belviso, con alcuni casi di predazione su bestiame. Sulle Orobie bergamasche, nel 2008 analisi genetiche hanno confermato la presenza di un lupo maschio. Altri individui sono presenti nei territori limitrofi e in particolare in Val Camonica e in Valtellina.
FILOGENESI E SISTEMATICA
L’ordine dei Carnivori comparve nel Paleocene nell’emisfero Boreale, in un’area corrispondente all’attuale Nord America tra i 65 ed i 55 milioni di anni fa, dal gruppo dei Creodonti, estintosi nel Pliocene. Al termine del Paleocene, circa 10 milioni di anni fa, dai Creodonti si originarono diverse forme, simili ai Mustelidi, dotate di denti Carnassiali, come la famiglia Miacidae, carnivori arboricoli, dalla quale successivamente si differenziarono le famiglie dei Canidi, Felidi, Ursidi, Ienidi, Mustelidi, Procionidi e Viverridi. Tra i 40 ed i 30 milioni di anni fa, comparve il Cynodictis, vero e proprio rappresentante dei Canidi, caratterizzato da un corpo più piccolo e allungato di quello dell’attuale lupo. Tra i 30 ed i 15 milioni di anni fa, da Cynodictis si evolsero Cynodesmus e Tomarctus, molto simili al lupo attuale, con arti allungati e primo dito dell’arto posteriore ridotto. Tra i 6 ed i 4 milioni di anni fa fece la sua comparsa Eucyon, carnivoro dalla dieta più onnivora, progenitore di quasi tutti i Canidi attuali, primo a calpestare il suolo del continente eurasiatico.
L’attuale Lupo, Canis lupus, comparve nel Pleistocene inferiore, tra 1 e 2 milioni di anni fa, in Eurasia, in vasti territori occupati dalla tundra e solo 750.000 anni fa si diffuse in America Settentrionale attraversando le terre emerse che occupavano l’attuale stretto di Bering.
La famiglia dei Canidi, tra le più primitive dei Carnivori, è suddivisa in tre sottofamiglie: Canini, Simocionini e Otocionini. Alla Sottofamiglia dei Canini appartiene il genere Canis che include complessivamente 7 specie selvatiche: il lupo (Canis lupus L.,1758), il coyote (C. latrans Say, 1832), lo sciacallo dorato (C. aureus L.,1758), lo sciacallo striato (C. adustus Sundevall, 1847), lo sciacallo della gualdrappa (C. mesomelas Schreber, 1755), il lupo rosso (C. rufus Bailey, 1905) e il lupo abissino o sciacallo Simiem (C. simiensis Ruppel, 1869).
L’ampia distribuzione latitudinale della specie Canis lupus comporta una grande variabilità fenotipica, evidente nelle dimensioni corporee e nelle colorazioni del mantello delle diverse sottospecie e razze locali. La sistematica del lupo è stata influenzata da questa variabilità, che spinse i primi tassonomi a riconoscere diverse sottospecie, soprattutto in base alla morfometria e alla distribuzione geografica. Attualmente, vengono riconosciute 5 sottospecie nel continente americano e 8 in quello Eurasiatico, anche se l’applicazione di moderne tecniche genetiche potrebbe portare ad una ulteriore revisione del numero di sottospecie.
In Italia, e più precisamente negli Appennini, fu descritta la sottospecie italicus (Canis lupus italicus Altobello, 1921), la quale, dopo controversie durate per anni, è risultata sufficientemente divergente dalle altre sottospecie eurasiatiche, come hanno dimostrato approfondite analisi genetiche e biometriche (Nowak e Federoff, 2002).
Classe: Mammalia (Linnaeus, 1758)
Sottoclasse: Theria (Parcher et Haswell, 1897)
Infraclasse: Eutheria (Gill, 1872)
Cohorte: Fetungulata (Simpson, 1945)
Superordine: Ferae (Linnaeus, 1758)
Ordine: Carnivora (Bowdich, 1821)
Famiglia: Canidae (Fischer Von Waldheim, 1817)
Sottofamiglia: Caninae (Fischer Von Waldheim, 1817)
Genere: Canis (Linnaeus, 1758)
Specie: Canis Lupus (Linnaeus, 1758)
Sottospecie: Canis lupus lupus (Linnaeus, 1758)
MORFOLOGIA
Il lupo è il rappresentante del genere Canis di maggiori dimensioni; la corporatura slanciata e robusta, con arti lunghi e dritti e torace ampio, è quella di un tipico trottatore adatto a coprire lunghe distanze. Il lupo italiano non smentisce la regola seguita dalle specie con ampia distribuzione latitudinale, per cui le dimensioni corporee tendono progressivamente a ridursi scendendo verso latitudini più meridionali; pertanto, gli esemplari italiani appaiono più piccoli degli individui delle regioni nordiche. In Italia il peso dell’animale adulto varia tra i 25-35 Kg con punte massime intorno ai 40-45 Kg. La lunghezza del corpo misurata tra la testa e la base della coda varia tra 100 e 140 cm, la coda in genere non supera i 30-40 cm, l’altezza al garrese varia tra 70 e 80 cm. Le femmine sono leggermente più piccole dei maschi. Le forme monocromatiche completamente bianche o nere, più frequenti alle latitudini estreme, non sono esclusive di questi territori; negli ultimi anni individui con fenotipo nero sono stati avvistati sull’Appennino Settentrionale e sono stati erroneamente interpretati come casi di ibridazione con cani inselvatichiti (Anderson et al, 2009).
Il mantello del lupo in Italia si presenta grigio-fulvo con una striscia più scura che percorre dorsalmente l’intero animale sino alla coda, fianchi grigio-fulvi con addome fulvo più chiaro. La testa è grigia con muso fulvo; guance, mento e gola bianchi; folti e lunghi peli grigio-neri circondano il collo e sono limitati inferiormente da una banda più scura, mentre gli arti anteriori sono percorsi da una sottile striscia scura longitudinale.
Il cranio ha un aspetto affusolato e al contempo robusto rispetto a quello delle diverse razze canine, con ampie arcate zigomatiche e cresta sagittale per consentire l’inserzione dei potenti muscoli masseteri e temporali. La canna nasale è lunga e lo stop frontale è poco pronunciato, le orecchie sono brevi e il collo è corto e robusto. Come la maggior parte dei mammiferi, il lupo è difiodonte; la dentatura da latte, composta da 28 denti (I 3-3; C 1-1; P 2-2; M 1-1), è completa entro il terzo mese di età e viene sostituita da quella definitiva, composta da 42 denti (I 3-3; C 1-1; P 4-4; M 2-3), entro il settimo. Nel lupo sono particolarmente sviluppati i potenti denti ferini o carnassiali, deputati al taglio della carne e dei tendini.
COMPORTAMENTO SOCIALE E RIPRODUZIONE
Il lupo è un Canide sociale che vive in nuclei familiari o veri e propri branchi strutturati, all’interno dei quali le attività essenziali come la cattura delle prede, l’allevamento dei nuovi nati e la difesa del territorio, avvengono in modo coordinato tra tutti gli elementi che li compongono. Questa unità sociale risulta solitamente composta da un gruppo familiare formato da una coppia di riproduttori, dai cuccioli e da alcuni individui subadulti (di età inferiore ai 22 mesi) o di rango gerarchico inferiore (Mech, 1970).
L’organizzazione sociale del lupo prevede che una parte della popolazione sia organizzata in branchi strutturati e incentrati su unità familiari, mentre altri individui rimangono solitari o si associano in piccoli gruppi. La dimensione dei branchi e l’importanza relativa delle diverse forme di aggregazione rispondono all’esigenza di massimizzare il successo riproduttivo e la sopravvivenza degli individui in funzione della densità di popolazione, della disponibilità di prede e delle loro dimensioni e comportamento sociale. Esistono quindi condizioni in cui è più conveniente organizzarsi in branchi numerosi, soprattutto se le prede sono abbondanti e di grosse dimensioni ed altre in cui una maggior scarsità di risorse rende poco conveniente la sopravvivenza di branchi numerosi a causa delle maggiori difficoltà a reperire cibo per tutti i membri (Zimen,1976; Harrington et al., 1982).
La dimensione del branco è correlata positivamente con la densità di popolazione; dove la densità è alta si formano i branchi più numerosi, esiste però un livello oltre al quale le dimensioni non aumentano ulteriormente. Secondo uno studio realizzato in Minnesota, una porzione rilevante della popolazione di lupi, caratterizzata da densità elevate, era costituita da individui solitari e piccoli gruppi non territoriali che si muovevano tra i territori dei branchi di maggiori dimensioni (Mech e Frenzel, 1971). Anche nella popolazione di lupi dell’Isle Royale National Park, nel corso degli anni ’70, è aumentato il numero di individui isolati o in piccoli gruppi privi di territorio, mentre le dimensioni dei due branchi principali non sono mutate (Peterson, 1977). Per l’Italia, le stime disponibili danno una dimensione dei branchi variabile tra 2 e 7 individui in tarda estate (Boitani e Ciucci, 1998); non vengono, comunque, raggiunti i valori noti per l’America settentrionale, dove il branco può variare tra i 2 e i 15 individui con casi eccezionali di 36 individui in Alaska (Rausch, 1967).
Ciascun branco occupa un territorio che viene difeso e delimitato nei confronti dei branchi confinanti attraverso la marcatura con escrementi in siti strategici e mediante emissioni vocali che coinvolgono tutti i membri (ululati), possono essere comunque presenti parziali sovrapposizioni territoriali. Gli individui solitari e i piccoli gruppi non sono impegnati nella difesa attiva di alcun territorio e si spostano tra quelli dei branchi stabili, con cui evitano i contatti (Mech, 1974). Le dimensioni dell’area vitale di un branco possono essere molto variabili e influenzate dalle dimensioni del branco, dalla densità e dal comportamento spaziale delle prede (migrazioni, spostamenti, erratismi). In Nord America le aree vitali possono variare da 80 a oltre 2500 Km2 (Ballard et al., 1987; Fuller, 1989), mentre per l’Italia i valori sono compresi tra i 75 e 300 Km2 (Boitani e Ciucci, 1998).
All’interno del branco viene mantenuta una gerarchia di dominanza lineare che coinvolge entrambi i sessi e che viene costantemente regolata attraverso atteggiamenti aggressivi e inibitori altamente ritualizzati (Schenkel, 1947); si delineano così ruoli e posizioni relative che si traducono in una differente accessibilità alle risorse alimentari e nella possibilità di accoppiarsi e riprodursi. In genere in un branco esiste solo una coppia di riproduttori (coppia alfa), mentre gli altri membri del gruppo non possono accoppiarsi se non in situazioni particolari e comunque raramente la gravidanza viene portata a termine. Esistono diverse forme di inibizione della riproduzione, attuate dalla coppia alfa verso i propri subordinati, che vanno dalle ingerenze durante la fase di corteggiamento all’interruzione fisica della copula (Mech, 1970); inoltre, il costante stato di sottomissione ed il basso rango dei subordinati potrebbe inibire la riproduzione abbassando la fertilità delle femmine e la predisposizione alla copula dei maschi. Normalmente i giovani rimangono all’interno del branco sino al raggiungimento del secondo anno di vita; a questo punto possono disperdersi nel tentativo di trovare un territorio idoneo alla riproduzione in cui fondare un nuovo branco. Tale processo aumenta le probabilità riproduttive del singolo individuo, riducendo il rischio di accoppiamenti tra consanguinei (inbreeding) e di un sovrautilizzo delle risorse trofiche e favorendo l‘espansione dell’areale. In alternativa, i giovani possono rimanere all’interno del branco natale cercando di acquisire una posizione dominante; la scelta di una delle due differenti strategie è legata a fattori quali la disponibilità di prede e ambienti sicuri per la colonizzazione e la densità di popolazione. In popolazioni in fase di espansione, oppure sottoposte a elevata mortalità, o in situazioni di carenza di prede, l’unità sociale fondamentale è la coppia di riproduttori che allevano i cuccioli fino al momento della successiva riproduzione, vale a dire fino all’inverno dell’anno successivo. A questo punto i giovani nati l’anno prima vengono allontanati e indotti a disperdersi per cercare un loro territorio e un compagno di coppia. In questo modo aumenta il potenziale riproduttivo della popolazione e nello stesso tempo aumenta la possibilità di sopravvivenza anche in situazioni di scarsa disponibilità di prede. Infatti, piccole unità familiari possono utilizzare anche prede di piccole e medie dimensioni e popolazioni di erbivori a bassa densità. Questa è la struttura di popolazione più diffusa in Italia, anche se negli ultimi tempi è aumentata la frequenza di branchi strutturati, probabilmente in relazione all’incremento delle popolazioni di ungulati selvatici e della densità della popolazione di lupo.
La riproduzione è preceduta da una fase di corteggiamento che può avere una durata variabile; l’estro delle femmine dura circa 5-7 giorni (Mech, 1974) e avviene un’unica volta durante l’anno in un periodo che, secondo la latitudine, può variare tra gennaio e marzo (in Italia tra gennaio e febbraio). La gestazione ha una durata di circa 60 giorni, al termine dei quali vengono alla luce mediamente 4-6 cuccioli che alla nascita sono ciechi e sordi, pesano intorno ai 500 g e possiedono scarse capacità di termoregolazione (Rutter e Pimlott, 1968). La nascita avviene in una tana scavata appositamente o ottenuta adattando quella di altre specie o rifugi naturali, in uno dei tanti siti di rendez-vous (luoghi impenetrabili dove i lupi trovano riparo e si riposano nelle ore diurne); attorno alla tana si concentra l’attività dell’intero branco e i membri del gruppo vi fanno ritorno portando il cibo alla femmina e ai piccoli.
L’alimentazione è basata esclusivamente sul latte materno fino al ventesimo giorno di vita; in seguito viene progressivamente associato del cibo predigerito che viene rigurgitato ai piccoli e che sostituirà progressivamente il latte nel giro di 20-30 giorni. Dal quarto-quinto mese di vita i giovani assumono un mantello più folto e molto simile a quello degli adulti e sono in grado di seguirli negli spostamenti. Dal settimo mese il giovane ha definitivamente assunto l’aspetto tipico della specie, ma il completamento dello sviluppo dell’apparato scheletrico e le dimensioni definitive saranno raggiunte solo ad un anno di età.
HABITAT
E’ difficile individuare le caratteristiche geomorfologiche, climatiche o vegetazionali che possono definire in maniera univoca l’habitat occupato dal lupo. La specie, infatti, come dimostra l’ampio areale di distribuzione originario, sembra non richiedere requisiti ambientali particolari, quanto, piuttosto, una buona disponibilità di prede e la mancanza di fattori di disturbo, i quali possono interagire negativamente con la riproduzione, l’allevamento dei piccoli e le diverse forme d’interazione sociale. In Europa come in America settentrionale, in ogni caso, sembra che la probabilità di presenza e la densità di popolazione aumentino con l’aumentare dell’abbondanza e diversità delle prede, e con la copertura forestale, mentre diminuiscono con il disturbo antropico (densità di abitanti, sviluppo della rete viaria, presenza di centri abitati) (Meriggi e Massolo, 1998; Corsi et al., 1999; Glenz et al., 2001; Cayuela, 2004; Potvin et al., 2005; Jedrzewieski 2008).
ECOLOGIA ALIMENTARE
Il lupo è tipicamente un predatore di grandi erbivori selvatici, anche se spesso si dimostra un predatore generalista, in grado di catturare prede che differiscono anche notevolmente per dimensione. Le abitudini alimentari delineano il profilo di un carnivoro opportunista che, quando scarseggiano le prede di grandi dimensioni, può includere nella propria dieta fonti alternative di cibo come frutta, invertebrati e rifiuti di natura antropica (Boitani, 1982). Lo spettro delle prede naturali che compaiono nella dieta delle differenti popolazioni di lupo è molto ampio e dipendente dalla distribuzione delle specie; inoltre, la frequenza con la quale le differenti prede rientrano nella dieta di una singola popolazione dipende molto dalla loro abbondanza relativa, accessibilità e convenienza, ovvero dal rapporto tra energia acquisita e energia spesa per catturare la preda.
Per quanto riguarda l’America settentrionale studi molto approfonditi e condotti per diversi anni consecutivi, hanno evidenziato come il lupo abbia una spiccata predilezione per gli ungulati selvatici e non disdegni anche prede di dimensioni minori come i Lagomorfi (Thompson, 1952; Fritts e Mech, 1981; Shelton e Peterson, 1983; Fuller, 1989).
In Europa settentrionale e orientale la dieta del lupo è incentrata sempre sugli ungulati selvatici, mentre per l’Europa meridionale risulta più diversificata in risposta alle maggiori interferenze che le attività umane hanno avuto sull’ambiente. L’alterazione degli ecosistemi naturali legata alle diverse attività produttive e la forte pressione venatoria che ha compromesso l’esistenza di molte popolazioni di ungulati hanno influenzato le abitudini alimentari del lupo, il quale ha dato ulteriore prova della sua adattabilità e versatilità.
Dall’inizio dell’ultimo post-glaciale, l’areale di distribuzione originario delle diverse specie di ungulati è andato diminuendo considerevolmente; la ricchezza delle comunità di ungulati nella maggior parte del continente è diminuita dalle 5-6 specie alle attuali 2-3. Esiste inoltre una relazione significativa tra ricchezza specifica della comunità di ungulati e ampiezza della nicchia trofica del lupo (Okarma, 1995). Nella regione mediterranea il lupo si è localmente specializzato a nutrirsi di categorie alimentari come erbivori domestici (Ragni et al., 1985), frutti (Meriggi et al., 1991) e rifiuti (Reig et al., 1985). Anche studi condotti in Spagna hanno evidenziato l’influenza antropica sulla dieta del lupo, in particolare la presenza di rifiuti e di bestiame, probabilmente conseguenza della diminuzione degli erbivori selvatici (Salvador et al., 1987; Reig et al., 1985).
Nel massiccio del Mercantour (Francia sudorientale), area di recente espansione, dove esiste una comunità di ungulati selvatici molto ricca e diversificata, la dieta del lupo è composta per circa il 97% da ungulati selvatici, prevalentemente muflone e camoscio, con piccole variazioni stagionali (Poulle et al., 1997).
Per quanto riguarda l’Appennino, le prime indagini condotte negli anni settanta misero in evidenza l’importanza dei rifiuti, in conseguenza della scarsità di prede selvatiche; studi più recenti evidenziano una dipendenza sostanziale del lupo dagli ungulati selvatici e domestici (Meriggi et al.,1991, 1996; Brangi et al.,1992).
Diversi studi hanno dimostrato l’esistenza di una significativa correlazione negativa tra la frequenza di comparsa nella dieta degli ungulati domestici e di quelli selvatici (Mech, 1970; Fritts e Mech, 1981; Lovari e Meriggi, 1996 ). Inoltre, la presenza di comunità diversificate di ungulati selvatici è risultato il fattore chiave per una riduzione consistente della predazione a carico del bestiame, mentre in situazioni più povere dove prevale un’unica specie, anche se abbondante, la predazione sul bestiame rimane importante (Meriggi e Lovari, 1996).
In Italia, con l’espansione nell’arco alpino occidentale, il lupo ha trovato una notevole disponibilità di ungulati selvatici e, di conseguenza, la sua dieta si è spostata verso queste specie preda (Avanzinelli, 2002; Marucco, 2002; Capitani et al., 2004; Gazzola et al. 2005). Se nell’Appennino le specie di ungulati selvatici a disposizione del lupo sono cinghiale, capriolo, daino, cervo e talvolta muflone, sulle Alpi il predatore ha a disposizione anche stambecchi e camosci, che per più di 100 anni non hanno subito predazioni da parte del lupo; questo potrebbe quindi diminuire i casi di predazione sugli ungulati domestici, causa di contrasto con l’uomo.
Studi recenti sulla dieta del lupo in ambiente alpino hanno dimostrato che la principale risorsa trofica è costituita da ungulati selvatici (87,2%) , cervidi in particolare con una percentuale pari al 74,2%; i bovidi selvatici sembrano essere meno importante di cervi e caprioli nella dieta dei lupi. La sensibilità elevata di predazione per i cervidi potrebbe essere il risultato della forte sovrapposizione di habitat e altitudine (Gazzola, 2005).
Gli episodi di predazione costituiscono il principale problema per la conservazione del lupo, in quanto possono condurre ad un’intensa persecuzione. Questo si verifica anche in regioni dove vi è una contemporanea presenza di ungulati selvatici e domestici, e dove questi ultimi sono localmente abbondanti e non adeguatamente protetti. Infatti, nelle regioni dell’Appennino centromeridionale, in cui il lupo è sempre stato presente, la prevenzione dalle predazioni è perseguita con diversi sistemi (sorveglianza delle greggi o mandrie, ricovero notturno, recinti anti-lupo), mentre nelle aree in cui il predatore è stato per molto tempo assente, la mancata “coevoluzione” tra modalità di allevamento e presenza del lupo genera forti conflitti.
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